Microplastiche
Le microplastiche nei prodotti della pesca
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A cura dell’Area Mare e Conserve Ittiche SSICA
Il problema relativo all’inquinamento da “plastica”, nelle sue varie accezioni, è naturalmente legato all’ingente ruolo che tale materiale ha assunto nella nostra vita quotidiana, grazie alla sua straordinaria versatilità. Attualmente, sebbene i continui allarmi legati alla sua presenza sempre più cospicua nell’ambiente non solo marino, nonché al fatto che la relativa industria sia la seconda maggiore fonte di emissione di gas serra, la produzione di materiali plastici continua ad aumentare. Si stima infatti che la produzione mondiale di plastica raggiungerà i 400 milioni di tonnellate nel 2050 (Dati Plastic Europe 2013), tra polietilene (PE, 29%), polipropilene (PP, 19%), Polivinilcloruro (PVC, 12%), polistirene (PS, 8%), polietilentereftalato (PET, 7%), poliuretano (PUR, 6%) ecc.
Riguardo all’impatto sull’ambiente marino e quindi sui prodotti della pesca, da molti anni è emersa la problematica della presenza, in mare e nei bacini idrici, di residui di vario tipo, natura e dimensioni derivanti dalle differenti fasi della filiera dei materiali plastici, dalla produzione al consumo.
Le microplastiche (MP) sono delle particelle di materiale plastico di dimensioni comprese tra 0.1 e 5000 micrometri (µm), da differenziarsi dalle nanoplastiche (NP), le cui dimensioni vanno da 0.001 a 0.1 µm (definizione EFSA). Esse sono state distinte in due gruppi: primarie, rappresentate da particelle originali, utilizzate come esfolianti nei cosmetici, come abrasivi industriali, indumenti e prodotti tessili sintetici, ecc., e secondarie, che derivano dalla degradazione di detriti di pezzi più grandi, e che rappresentano la maggior parte delle MP presenti in mare. I meccanismi di degradazione sono prevalentemente rappresentati da foto-ossidazione termica, idrolisi e biodegradazione mediata dall’attività microbica.
Oltre agli effetti delle MP in quanto tali, va sottolineato, che, a causa della loro formulazione e/o lavorazione, le materie plastiche contengono additivi e impurità che possono essere rilasciati in condizioni d’uso e accumularsi nell’ambiente. Al fine di valutare il loro ruolo come vettori di contaminanti chimici, uno studio ha messo in evidenza che detriti plastici abbandonanti in ambiente marino e sulle spiagge sono una fonte di contaminazione da idrocarburi, stabilizzanti UV, antiossidanti, plasticizzanti, lubrificanti, intermedi di reazioni, ritardanti di fiamma, monomeri, agenti antistatici, che possono avere potenziali effetti negativi sull’ambiente contaminato e sull’uomo (1).
Sul tema, l’EFSA, attraverso uno studio coordinato dal prof. Hollman (2), si è espressa affermando che, mentre non esistono dati sulla presenza di NP negli alimenti, si registrano elevate concentrazioni di MP nei pesci, ma poiché esse sono presenti per la massima parte nell’apparato digerente, che di solito non viene consumato, e non essendoci possibilità di migrazione al muscolo degli animali, non sussiste il rischio di trasferimento di tali sostanze all’uomo attraverso il consumo della parte edibile. Diverso è il discorso per i crostacei e i molluschi bivalvi, come le ostriche e le cozze, di cui si consuma anche il tratto digestivo, attraverso il quale vi può essere ingestione di MP. Per quanto concerne la salute dei consumatori, l’EFSA afferma che le MP possono diventare vettori di composti potenzialmente nocivi per l’uomo, come i policlorobifenili (PCB), gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA) e composti utilizzati negli imballaggi come il bisfenolo A (BPA).
Alcuni studi (3) confermano l’ipotesi EFSA che l’ingestione anche continuativa di MP non sia causa di danno imminente se si è esposti ad una dieta a base di pesce in quanto né i tessuti, né il sangue degli animali risentono della contaminazione. Inoltre, sembra che la loro presenza in mare non abbia influenza sul comportamento dei pesci, lasciando inalterate così le loro abitudini alimentari (4).
Nei mari europei, MP sono state rinvenute nello stomaco di tre differenti pesci della famiglia dei Clupeidi: aringhe (Clupea harengus) nel mare del Nord, sardine (Sardina pilchardus) nel Canale della Manica e alici (Engraulis encrasicolus) in Italia e nel golfo di Lione; in particolare, l’Istituto Francese del Mare ha analizzato le interiora di alici con lunghezza totale tra gli 11 ed i 28 cm (quelle di dimensioni più piccole sono troppo giovani per bioaccumulare) mediante digestione acida dei tessuti secondo il protocollo standard OSPAR e rilevazione con spettroscopia Raman che ha consentito di identificare anche le particelle più piccole (5). Lo studio ha confermato che si tratta sempre di microparticelle di plastica comune che restano confinate nelle interiora degli animali e non migrano nel muscolo consumato, fresco o trasformato, dall’uomo.
Per quanto riguarda i paesi che si affacciano sul Mediterraneo, sono stati trovati residui di MP in pesci edibili come triglie di fango (Mullus barbatus) e naselli (Merluccius merluccius). Uno studio (6) ha esaminato i tratti intestinali di 229 pesci demersali raccolti da tre differenti zone FAO (GSA-9, GSA -17, GSA-19) del mare Mediterraneo. Le MP sono state caratterizzate mediante stereomicroscopio, osservate, fotografate, misurate e categorizzate in base a dimensione, classe, forma e colore. Frammenti di plastica (da 0.10 a 6.6 mm) sono stati rilevati nel 23.3% del totale dei pesci analizzati; in totale sono state rilevate 65 particelle di plastica (il 66% costituite da fibre). La percentuale di plastica ingerita mostra alta variabilità tra le due specie a seconda della zona FAO di campionamento. La più alta frequenza (48%) è stata rilevata nelle triglie pescate in Europa nella zona GSA-19. Questi risultati preliminari rappresentano una base di riferimento per l’implementazione della Marine Strategy Framework Directive in Italia, nonché un passo importante per l’individuazione di microplastiche in specie bioindicatrici provenienti da diverse GSA.
Concentrazioni non trascurabili di MP sono state rinvenute non solo in mari poco aperti come il Mediterraneo, ma addirittura in pesci tropicali della Polinesia (7) ed in pesci commerciali nella regione di Biobio del Cile centrale (8).
Un dato confortante emerge dall’analisi ottica al microscopio SEM/EDS impiegata anche per la ricerca di MP in pesci oceanici (9) e particolarmente indicata per la determinazione di PVC, grazie alla quale si è potuto verificare che spesso lo stomaco dei pesci contiene micro-conchiglie che somigliano a MP ma non lo sono, pertanto la semplice osservazione delle interiora dei pesci mediante microscopio ottico può indurre a concludere che ci sia presenza di MP, invece smentita da analisi più fini.
In Italia, invece, sono state analizzate (10), mediante spettroscopia Raman ed IR, le acque ed i tratti gastrointestinali di specie commerciali di grande importanza, come pagello fragolino (Pagellus erythrinus) e occhione, o pezzogna (Pagellus bogaraveo). Le MP rinvenute nelle acque appaiono in forma di frammenti di plastica a bassa ed alta densità (PVC e LSPE), mentre quelle ritrovate nei pesci sono tutte fibre di Nylon 66.
Sempre in Italia, nel mare Adriatico, che risente degli sversamenti del fiume Po, alcuni ricercatori (11) hanno rilevato la presenza e la distribuzione di MP nel tratto digerente di diverse specie ittiche (triglie di fango, naselli etc.), con prevalenza di polietilene (65%).
Per verificare se può avvenire trasferimento trofico ad una specie predatrice, uno studio (12) ha quantificato le MP ingerite nell’apparato digerente (nel muscolo non è presente) di pesci volanti (Cheilopogon rapanouiensis) di cui si nutrono tonni pinna gialla (Thunnus albacares) pescati nelle acque attorno all’isola di Pasqua. Per fortuna, non sono state trovate tracce significative di MP nei tonni, presumibilmente perché, essendo di grandi dimensioni, non c’è bioaccumulo nell’apparato digerente, pertanto la presenza di MP non sembra essere una emergenza per i pesci predatori di grandi dimensioni. Sembra invece che proprio il comportamento predatorio delle larve del tonno rosso (Thunnus thynnus) le esponga ad ingestione di MP, condizionandone il comportamento, con il rischio che si nutrano di particelle di plastica al posto di organismi acquatici, con potenziali effetti negativi sulla loro sopravvivenza (13).
Discorso analogo vale per i crostacei, di cui è stato studiato l’effetto dell’ingestione da polistirene (14), che confondono le particelle di plastica con il cibo di cui normalmente si nutrono in quanto hanno dimensioni simili.
Una ricerca condotta su organismi filtratori come le ostriche, provenienti da 17 siti lungo le coste cinesi (15), ha mostrato che la fase di depurazione, oltre ad abbattere la carica batterica, riduce il contenuto di MP nell’apparato digerente. Risultato simile si è riscontrato sia nelle cozze selvatiche che in quelle coltivate.
Per quello che riguarda i metodi di rilevazione delle MP nei prodotti della pesca, essi comprendono una fase di estrazione/separazione e una fase di identificazione.
In letteratura ormai sono descritti protocolli altamente performanti dell’estrazione delle microplastiche dai pesci (5,11). Il maggior limite per la determinazione ed interpretazione delle MP presenti negli animali marini deriva dalla difficoltà di separare le MP dal corpo dell’animale. L’esame visivo spesso è usato come azione preliminare, ma è insufficiente a determinarne colore, dimensione, forma.
Un metodo interessante (5) è rappresentato dall’estrazione delle MP mediante ipoclorito di sodio e l’isolamento delle MP dalle membrane per sonicazione. Il protocollo è ben adattato alla successiva analisi mediante spettroscopia Raman ed è ben consolidato per MP con dimensioni al di sotto di 5 mm, anche se la diversificazione di forme (a fibre, a sfera ecc.) rende difficile l’effettiva classificazione.
Un nuovo protocollo che consente una resa di estrazione delle MP da tessuti di pesce compresa tra il 78% e il 98%, a seconda delle dimensioni del polimero è stato messo a punto da alcuni ricercatori italiani (11). Le analisi FT-IR hanno confermato che la procedura di estrazione non influenzava le caratteristiche delle particelle. Il metodo è stato validato su cefali (Mugil cephalus) e le particelle isolate e quantificate nel loro stomaco e fegato sono state confermate anche da analisi istologiche.
Un primo screening di identificazione delle plastiche può avvenire attraverso la spettroscopia ad infrarossi a trasformata di Fourier (FT- IR) e cercare i componenti principali: PP, PE, PET, e PS, mentre l’analisi dei contaminati derivati dall’ingestione delle microplastiche può avvenire mediante uno screening gas-cromatografico con spettrometria a massa (16).
Uno studio (17) ha confermato che, per la ricerca nel tratto gastrointestinale di MP nella cozza atlantica (Mytilus edulis) e nell’ostrica giapponese (Crassostrea gigas), la spettroscopia infrarossa a trasformata di Fourier è la tecnica ottimale e consente di identificarne i principali polimeri ovvero: cellophane, polietilene e polietilene tereftalato.
Più elaborato è il metodo per l’analisi delle NP e delle particelle sub micrometriche, che richiedono estrazione, preconcentrazione, separazione in sezioni specifiche ed analisi al microscopio attraverso light scattering o comunque mediante le proprietà ottiche della materia come gli spettri NIR e misure di indice di rifrazione (18).
Attualmente, si tende più alla ricerca dei componenti che migrano dalle MP che alla ricerca delle MP stesse: ad esempio, è stato messo a punto un metodo per la determinazione della concentrazione degli esteri ftalati ed altri plasticizzanti tramite gascromatografia e spettrometria di massa in alcune acque di mari tropicali classificando il rischio medio per l’inquinamento marino (19)
In conclusione, in relazione al pericolo di ingestione da microplastiche con l’assunzione di prodotti ittici, si può condividere la posizione dell’EFSA che, pur sostanzialmente rassicurante, suggerisce comunque di non abbassare la guardia, soprattutto in relazione alla migrazione di NP, di cui si sa ancora pochissimo, e di tutti i componenti che le MP contengono, la cui tossicità andrebbe monitorata.
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